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La Processione Delle Ombre

 

Mi chiamo Robert Tremest e vi racconto quello che ho visto...

Una lunga strada. L’asfalto aveva quasi il colore della notte e si presentava molto consumato. I lampioni erano riversi al suolo e la loro luce morente sfarfallava riflettendosi sui frammenti di vetro che li circondavano, come dolci e spettrali baci d’addio. Le porte e le imposte di legno delle case erano spezzate e marcite. L’aria era carica dell’aroma pesante del decadimento. Non trovai alcun indizio per poter riconoscere quello scenario macabro e deteriorato. Ogni elemento dell’ambiente circostante proiettava la mia mente verso un luogo tetro e tormentoso, più profondo dell’anima e oscuro come le tenebre. 

La strada, dapprima deserta e silenziosa, si popolò all’improvviso. Ombre dall’aspetto umanoide comparirono dal nulla, come se il solo immaginarle le avesse rese vive. Camminavano con andatura lenta e solenne, incolonnate in modo preciso, come ad una processione oscura. Ogni ombra stringeva in una mano una catena arrugginita, la quale si avvolgeva intorno al collo di una persona. Un moltitudine di cani-umani insieme ai loro padroni oscuri. Ombre di taglia infantile portavano al guinzaglio bambini. 

Le persone e i bambini, stretti nelle loro catene, bagnavano l’asfalto con le loro lacrime. Non tentavano di liberarsi in alcun modo. I loro occhi erano consumati dalla rassegnazione più vera e dolorosa. Quel senso di impotenza che deriva dalla perdita di ogni speranza.

Solo un uomo non era incatenato ad un’ombra. Giudicando dalla tunica e dal crocifisso dorato che teneva stretto nella mani, poste davanti a sé, doveva essere un prete. Nessuno lo chiamò per nome, per cui non posso sapere quale fosse. Aveva una fede molto forte. Ricordo ancora il gonfiarsi e sgonfiarsi della sua cassa toracica, sinonimo di respiri potenti. Le ombre continuavano la loro processione, giunsero davanti al prete, che non si mosse di un millimetro, e passarono oltre. Non posso esserne sicuro, ma credo che nessuna di loro avesse rivolto all’uomo nemmeno uno sguardo. Lui cadde in ginocchio con lo sguardo rivolto verso il cielo. 

Solo qualche minuto dopo, convenni che non era l’unico. C’erano altre persone che erano state ignorate, anche se non venni subito a conoscenza del perchè e, forse, persino la teoria che realizzai più tardi, potrebbe essere errata.

C’erano una donna e un bambino. Lui si chiamava Sebastian, lei non lo so. Sostavano immobili sul bordo della strada, stretti l’uno nell’altro, osservando laconici la marcia delle ombre. Quando un uomo passò accanto a loro, cane di un uomo tenebra, la donna pianse. Non ne sono sicuro, ma credo fosse suo marito. In quell’attimo di debolezza il figlio, corse verso l’uomo. La donna tentò di fermarlo, senza risultato. Ricordo che lo sfiorò, anche se in maniera molti lieve e quello che successe dopo fu come un meccanismo automatico, come una lampadina. Schiacci l’interruttore e un secondo dopo arriva la luce. Lui sfiorò l’uomo, che secondo la mia teoria era il padre, e immediatamente una catena di metallo arrugginito gli si avvolse intorno al collo. Un ombra delle sue stesse dimensioni apparve alle sue spalle. Lui cadde in ginocchio e si unì alla processione. 

Il silenzio che fino a pochi istanti erano stato padrone e sovrano di quella notte, fu strappato dalle grida della giovane donna. Mi è impossibile descrivere quanta disperazione ci fosse in quell’urlo, ma ricordo perfettamente come un brivido percorse il mio corpo dopo averlo udito. Pochi istanti dopo lei fece la stessa fine. Abbracciò il bambino e subito un ombra la prese con sé. Rimasi fermo per qualche momento, avvantaggiato dal fatto che ancora nessuno sembrava avermi notato. Pensai di essere dentro un incubo, chiunque l’avrebbe pensato al mio posto, così decisi di pizzicarmi le guance. Nessun risultato. Se ciò che stavo vivendo era un sogno marcescente, non era così facile da spezzare. Rivolsi lo sguardo all’orizzonte nel tentativo di individuare la meta di quella processione ma non vidi nulla. Solo buio. Spinto dalla curiosità e convinto del fatto di essere “immune” a ciò che stava accadendo, aspettai che le ultime ombre mi superassero e mi incamminai nella stessa direzione. La curiosità e la convinzione non avevano affatto influenzato la mia capacità di giudizio, motivo per cui mi tenni sempre defilato e il più nascosto possibile. Il prete dall’altra parte della strada continuava a ringraziare Dio in una monotona cantilena. Lo superai senza preoccuparmi di rivolgermi a lui, d'altronde era un estraneo e in quelle circostanze potevo fidarmi solo di me stesso. Lui, comunque, sembrò non notarmi. Le ombre avanzavano solenni verso il buio più assoluto. Più mi avvicinavo a quell’oscurità e più si riusciva a intravedere cosa c’era oltre. La strada circa quattrocento metri dopo finiva in uno strapiombo. Le ombre, insieme ai loro umani da compagnia, ci finirono dentro. Non si lanciarono, ne caddero. Semplicemente continuarono a camminare come se niente fosse fino a quanto in suolo non venne a mancare da sotto i loro piedi e precipitarono. Ero rimasto solo, fatta eccezione per il prete rimasto indietro, così decise di andare a controllare. Il dirupo sembrava un pozzo nero senza fine. Nella mia fantasia lo immaginai come una sorta di portale che conduceva all’inferno. Collegai quanto avessi appena visto a quell’idea e giunsi ad una conclusione. Nelle mie supposizioni le ombre erano dei traghettatori che conducevano le anime dannate nel regno degli inferi. Ma allora perché io mi trovavo lì? L’idea di essere morto mi passò per la testa solo per un attimo. Non pensavo di essere immortale, non voglio dire questo, però avevo venticinque anni, non fumavo, non bevevo ed ero in perfetta forma fisica, insomma di cosa sarei potuto morire? Se fossi morto in un incidente stradale o cose del genere me ne sarei ricordato. In quel momento le mie certezze vacillarono. In effetti non ricordo nulla di quanto sia successo prima di trovarmi qui. Dov’ero? Cosa stavo facendo?

Appena le mie convinzioni vacillarono e i dubbi s’insinuarono nella mia mente, una catena arrugginita comparve dal nulla cingendomi la gola. Voltai lo sguardo giusto in tempo per vedere l’ombra umanoide che stringeva la catena nella mano. Sentì una forza irresistibile piegarmi le gambe e cominciai a gattonare verso il precipizio. Non volevo farlo, ma fu come se in quel mondo la mia volontà non esistesse nemmeno. Non dovetti fare più di qualche metro prima di precipitare.

Quello che ci fu dopo è indescrivibile, ma voglio comunque provarci. Mi ritrovai come disperso nello spazio. Forme confuse danzavano caotiche in quel nero stellato. Comparivano e sparivano a ritmo indefinibile. Una miriade di voci si sovrapposero generando un suono infinito e incomprensibile. Raggiunsero tonalità illimitate. L’aria era mutevole e cambiava consistenza e aroma a intervalli irregolari. Profumo di morte, di rose, di ogni cosa. Mi sentivo prigioniero del caos. Ogni emozione dentro di me fuoriuscì dal mio corpo, liquida e cremisi come sangue, generando varie versioni di me. Vidi me stesso ridere come mai in vita mia avevo fatto, una risata folle e incontrollabile. Poco più in là ce n’era un altro che si reggeva il volto con le mani e piangeva fiumi di lacrime gridando disperato. Cercava di cavarsi gli occhi inondati dal dolore con le unghie. Un terzo se ne stava rannicchiato guardandosi intimorito tutto attorno, tremando come una foglia in un tornado. Il me innamorato con i suoi occhi sognatori stava litigando con la parte rancorosa, mentre un terzo individuo ragionevole cercava di tenerli a bada. C’era una parte di me che stava accanto ai miei genitori, abbracciandoli e confortandoli nella loro vecchiaia e un'altra parte che invece li guardava con occhi insensibili e indifferenti. C’erano un infinità di me. Tutti diversi e tutti monotematici. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Tutte quelle personalità erano racchiuse nella mia anima senza che io ci avessi mai dato molto peso. Potevo osservare dall’esterno ogni parte di me. Alcune mi terrificarono. Le osservavo mentre torturavano gente che mi aveva fatto del male in passato. Bryan, un ragazzo col quale avevo avuto gravi problemi, stava venendo spellato lentamente da una di esse. La visione era nitida e mi permise di vedere ogni cosa. La pelle si staccò dai muscoli come se fosse un cerotto incollato a una ferita. Il sangue cominciò a sgorgare dal corpo scorticato, spargendosi ovunque. Poco più in là una ragazza che mi avevo rifiutato stava venendo picchiata e abusata. Provai una voglia immensa di vomitare. Il senso di disorientamento stava diventando paura. Un terrore atavico che giunge dalle corde più profonde dell’anima e dai meandri più angusti e cupi della mente. Non potevo credere che tutte quelle personalità erano nascoste dentro di me. Mi guardai intorno, alla ricerca delle altre persone che come me erano caduta in questo caos oscuro. Nessuno. Probabilmente ognuno di loro era dentro alla propria confusione.

Confusione.

In quel momento qualcosa penetrò nella mia mente, chiaro e trasparente come l’acqua. Le ombre che portavano al guinzaglio le persone non erano altro che l’incarnazione della loro confusione. L’uomo in quanto dotato della capacità di ragionare può essere vittima dei dubbi. E quando i dubbi diventano troppo pericolosi la mente crolla. Il caos regna. Quello fu l’ultimo ragionamento possibile, prima che il terrore prese il sopravvento sulla mia mente facendomi correre all’impazzata in quel mondo caotico, cercando una via d’uscita. Lo spazio intorno a me cominciò a roteare e il sangue cominciò a schizzare ovunque, come una demoniaca spirale impazzita. 

Poi ci fu la luce.

Vidi un soffitto bianco e delle luci al neon. Una ragazza si avvicinò a me. Indossava un camice da infermiera e reggeva un flacone nella mano destra. Ne estrasse due pillole rosse. Appena la nebbia che offuscava i miei occhi si diradò, lessi il cartellino che portava appeso alla camicetta.

Susan.

Psychiatric Hospital.

Ricordai tutto. Ero sveglio e a casa.

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